Pagina:De Roberto - Spasimo.djvu/85

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i ricordi di roberto vérod 73

quando lo spettacolo delle nequizie gli era apparso troppo crudamente, solo a pensare che la creatura d’amore esisteva egli agguerrivasi nella sua fede. Ora ella era morta! Era morta! Egli l’aveva dinanzi agli occhi, distesa al suolo, immota, gelata, col mostruoso fiore sanguigno sulla pallida tempia; e un’ansia mortale lo soffocava, perchè egli voleva credere che la morte non l’avesse tutta distrutta, che la miracolosa anima vivesse ancora, vegliasse su lui, gli ripetesse le parole della fede e del perdono; ma non poteva; o se pure la voce soave che ancora gli echeggiava attorno lo persuadeva, l’oltre umana vita di quell’anima non bastava più a consolare la sua esistenza; i suoi occhi mortali avevano bisogno di vedere, le sue orecchie di udire, egli aveva bisogno di stringere la mano di lei, di toccare il lembo della sua veste; e questo suo bisogno sarebbe rimasto inappagato, per sempre. Perdonare agli assassini? Egli doveva vendicarla!

L’ultima luce del crepuscolo agonizzava, ma già l’alba lunare schiariva l’oriente. La pace era divina. E nella divina pace, nel silenzio augusto, Roberto Vérod si premeva la testa fra le mani per tentar di sedare la tempesta che lo travolgeva. Al pensiero di non aver saputo ispirare al giudice la propria certezza la sua ragione vacillava. Perchè non era stato più efficace? Se un caso imprevedibile aveva voluto che il giudice fosse un suo antico