Pagina:De Sanctis, Francesco – Alessandro Manzoni, 1962 – BEIC 1798377.djvu/32

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scene è assennata, ma anche la gradazione dei caratteri. La buona fortuna, la confidenza soverchia in se stesso toglie al Conte di veder chiaro, sì che cade nel tranello tesogli dal Senato, dove il Gonzaga, tanto a lui inferiore d’ingegno e di esperienza, ma di giudizio sano, non guasto dalla buona fortuna, vede subito l’inganno e non è creduto dal Conte. Il contrasto fra la fatuità del Carmagnola e il buon senso del Gonzaga dà luogo a una scena che fa molta impressione sul critico tedesco. Il quale trova anche assai ben disegnato il Doge che rappresenta la ragion di Stato, e sente e libra i diversi pareri; mentre al disotto di lui Marino, che rappresenta l’egoismo patriottico, è pronto a spezzare un istrumento divenuto pericoloso, e Marco, che rappresenta le idee di umanità e di giustizia, cerca indarno di salvare l’amico. Anche i due Commissarii veneti nel campo sono ben graduati, l’uno ardito, espansivo, l’altro chiuso in sé, calmo e furbo. Quanto al patetico, la tragedia al dire di Goethe è come un tranquillo fiume, che giungendo al mare spumeggia e strepita. Le lagrime commovono piú, quando sono ben preparate e a lunghi intervalli. Indi l’effetto dell’ultimo atto.

Adunque scene ben distribuite, caratteri ben graduati, patetico bene apparecchiato. Goethe ha ragione contro i critici classici. Non ci è un metodo unico ed immutabile in arte. Anche Manzoni ha il metodo suo, e questo metodo è buono. Non è metodo inglese, né tedesco, né francese e neppure italiano, non è metodo classico, e non romantico, è il metodo di Manzoni, dove la libertà della teoria è temperata nella pratica dalle condizioni teatrali, dalle abitudini e dai pregiudizii degli spettatori. È una libertà «moderata», la meno lontana dalle abitudini classiche, generalizzate, alzate a regola, divenute il «buon gusto», parola formidabile, con la quale si rispondea a tutte le novità, a tutte le obbiezioni.

La lettera a Chauvet di Manzoni e gli articoli di Goethe pongono fine alla questione di metodo. Si può conseguire tutti gli effetti drammatici con un metodo che non sia quello di Racine e di Alfieri. L’artista si forma lui il suo metodo, e non lo cerca già nella sua immaginazione, lo cerca nel suo argomento. Il metodo è la cosa stessa nel suo «divenire».