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xiii. 1820-21 - progetti 129

alla vacua facondia, e si addottoravano sulle sue poesie. Il giovane, oscillante nella sua prima giovinezza tra la licenza e la pedanteria, si allontana da’ romantici, ne’ quali trova soverchia licenza, e da’ puristi, ne’ quali trova pedanteria, e fin da Pietro Giordani, il suo caro; e cerca una forma di scrivere sua, che dia all’Italia una prosa filosofica, e l’avvicini alla letteratura moderna.

A questi tentativi e disegni era propizia non solo la sua salute migliorata, ma ancora uno stato più tranquillo dell’animo, disposto a ridere, anzi che ad affliggersi.

Essendo stanco di far guerra all’invincibile, tengo il riposo in luogo della felicità; mi sono coll’uso accomodato alla noia, nel che mi credeva incapace d’assuefazione, e ho quasi finito di patire. Della salute sto come Dio vuole: quando peggio, quando meglio; sempre inetto a lunghe applicazioni.

Così scriveva a Giordani il 26 ottobre del 1821. Sicché questo suo stato dura dallo scorcio del 1820 a tutto il 1821. — Mi avvezzo a ridere e ci riesco — , dice a Pietro Brighenti. Non è più attore, fa lo spettatore, che guarda e fischia. Da queste disposizioni escono i suoi abbozzi filosofici satirici. La poesia è dimenticata, perché «vede, e non sente più nulla».

Ma non tiriamo conseguenze frettolose e assolute. È uno stato non fisso, sì che diventi seconda natura. È un umore, anzi che uno stato. Tornerà il pianto, tornerà l’attore. Il vulcano non è spento. E anche ora, chi guarda bene, in mezzo a quel riso vedrà non so che convulso e sforzato, come di chi vuol ridere e non ci riesca: c’è troppo amaro condensato sotto a quel riso. È facile dire a Brighenti: — Ridiamo insieme — . Ma non gli esce dalla penna né un frizzo, né un epigramma, nessun tratto di spirito che riveli o allegrezza, o sincero acquetamento. Anzi la penna geme e freme.

Tutti noi combattiamo l’uno contro l’altro, e combatteremo fino all’ultimo fiato, senza tregua, senza patto, senza quartiere. Cia-

9 — De Sanctis, Leopardi.