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xxii. 1826-27 - «al conte carlo pepoli» 191

avuto innanzi il tipo oraziano, una elegante famigliarità, come in una conversazione tra gente a modo. Nel suo manoscritto si vedono a margine molte annotazioni, che esprimono diverse maniere di dire ciò che ha detto. Accanto al verso:

L’ozio che ti lasciar gli avi remoti,

vedi un verso dello stesso senso, ma in altra forma:

L’ozio che a te gli antichi avi lasciaro.

Verso posposto all’altro, non solo per quel brutto «lasciaro» messo in fine, ma anche per quell’armonia troppo solenne e sonora; dove il verso preferito ha andatura naturale, quasi simile alla prosa.

E non è solo la differenza del genere, che ci spiega una forma così aliena alla sua maniera, ma ancora il suo stato morale. Qui non è più quel puzzo di chiuso e di solo, quello umor nero e denso che senti nelle canzoni. Anzi ci si vede un ambiente grato, e un umor discorrevole, una espansione che solleva lo spirito e rende ilare il volto, anche a dir cose triste. In effetti, tristissimo è l’argomento di questa epistola. Si vuol provare che, non avendo la vita nessun altro fine se non la felicità, e non potendo questo fine esser raggiunto, tutto quell’operare che si chiama vita non è che ozio. È un concetto fondamentale della sua filosofia, espresso già poeticamente in diversi modi. Ma questo concetto, che nelle altre poesie è un sentimento connesso e intimo con la sua persona, qui piglia forma di una tesi, svolta accademicamente. Non trovi né la novità di un pensiero importante apparso per la prima volta innanzi allo spirito, né il dolore di una così terribile convinzione, congiunto con un soffrire presente e reale. Quel dolere è già scontato, e quella novità è già passata. Rimane una tesi splendida, svolta con facondia, e che ha tutta l’aria di un paradosso, dove il motivo estetico è meno il dolore di una così crudele verità, che il piacere di dimostrarla con tanto gusto: il poeta ci s’intrattiene e ci ricama sopra. Ma se la felicità non è possi-