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bile, rimane come unico campo l’illusione, concessa a chi ha intatta la virtù dell’immaginazione e la gioventù del core. Qui il parlare è più ammirato, e si sente quel sentimento personale che dettò la lettera a Jacopssen. La fine della poesia ci rivela colui, che già era tutto dietro alla composizione dei suoi dialoghi, fondati sullo stesso concetto dell’epistola; anzi è un annunzio e quasi una prefazione delle sue Operette morali:

Altri studi men dolci, in ch’io riponga
L’ingrato avanzo della ferrea vita,
Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi
Destini investigar delle mortali
E delle eterne cose; a che prodotta,
A che d’affanni e di miserie carca
L’umana stirpe; a quale ultimo intento
Lei spinga il fato e la natura; a cui
Tanto nostro dolor diletti o giovi:
Con quali ordini e leggi a che si volva
Questo arcano universo; il qual di lode
Colmano i saggi io d’ammirar son pago.
    In questo specular gli ozi traendo
Verrò. . . . .

Quel «verrò» era già venuto, perché da un bel pezzo il poeta era tutto in questo speculare, ch’egli chiama pure ozio, o, come diceva a Giordani, vana curiosità. L’epistola è il programma di tutte le sue speculazioni in prosa sull’acerbo «Vero».

Alle quali ci pare oramai tempo di accostarci anche noi, pigliando per ora commiato dal poeta.