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202 | giacomo leopardi |
Infelicità e mistero, ecco l’ultima parola di tutto il discorso.
Maggiore è la civiltà, e più chiare appariscono queste conclusioni. Più l’intelletto è adulto, e meno possono le illusioni e le immaginazioni. Il mondo nella sua giovinezza e l’uomo nella prima età, prendono per cosa reale e salda tutto quello che la ragione chiarisce poi ombra vana: perciò sono meno infelici. Adunque la civiltà, la ragione, la scienza, il progresso non sono medicina, anzi sono veleno, e aumentano, non scemano, la nostra infelicità.
Questa maledizione alla scienza è anche cosa biblica. Tutte le religioni hanno in sospetto la scienza, come distruttiva della fede. E la scienza a volta sua, quando ha coscienza del suo potere, ne ha anche la superbia. Tutto l’orgoglio del razionalismo è in quel motto di Pascal: — L’uomo è «una canna pensante», così fragile per la sua natura, così forte per la sua ragione —. Leopardi rigetta fede e scienza, nega teologia e filosofia, rimane nel nulla, l’infinita vanità del tutto. Perciò la sua teoria è morte di ogni teologia, di ogni poesia e di ogni filosofia: il nulla universale.
Pure, chi guarda in fondo, vede Leopardi più vicino alla fede che alla scienza, invidiando quasi quelli che credono a Dio e alla immortalità dell’anima, come sono le nazioni e gli uomini giovani, e riandando con l’occhio lacrimoso di desiderio quella sua prima età, quando sapeva meno e credeva più. Il poeta desta una simpatia, la quale si tira appresso anche il filosofo.