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XXV

LA MORALE DI LEOPARDI

Conseguenza naturale di una teoria, la cui base è il mistero nelle origini e nella finalità del mondo e dell’uomo, e la vita una illusione e sola realtà la morte o il nulla, non può essere altro che il suicidio. E questa è la conclusione nel Bruto e nella Saffo.

Teorie simili non hanno morale, nulla hanno a dire per la vita pratica. La conseguenza animalesca è l’«edamus et bibamus», godere la vita, perché «post mortem nulla voluptas». Ma questo godere la vita, o, come si dice, il piacere, non è felicità, è anch’esso illusione: e allora che resta? Il morire.

Però a questa conseguenza, che viene diritta da quelle premesse, ripugnano i più eletti spiriti. Sappiamo a quale finezza dové aver ricorso Kant per conciliare la vita pratica con le sue deduzioni speculative.

Anche qui Leopardi s’incontra con Schopenhauer. Il suicidio soddisfa in lui il poeta, e anche l’uomo nel momento buio della vita. Una catastrofe come quella di Bruto sorride alla sua immaginazione quando il poveromo si trova proprio alle strette e non può durare la vita. Ma il filosofo sfugge alla catena del raziocinio, e sa conciliare la vita pratica e morale con quel nulla universale. Perché intendere è altro che volere, e l’uomo fa quello che vuole, e non quello che intende.

La maravigliosa unità dantesca del «posse, nosse, velle» è rotta così in Leopardi, come in Schopenhauer. La vita non appartiene all’intelletto, ma alla volontà; e l’uomo vive e vuol vi-