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«la vita solitaria» 297

quella morte universale. Ecco l’immobilità di Leopardi, assorbita nella immobilità universale, e in un di que’ silenzii, in quella profondissima quiete, che un giorno gli rivelarono l’infinito, lo stato della natura quando non ci era ancora la vita. Tutto questo è detto con una felicità di forma, con una finitezza e semplicità di espressione, come nell’Infinito e nella poesia Alla luna:

    Talor m’assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d’un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il sol dipinge.
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, né batter penna augello in ramo,
Né farfalla ronzar, né voce o moto
Da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e giá mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, né spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda.

Ecco la lettera diventata poesia.

E quando il poeta, travagliato da una malattia simile, «ferreo sopore», non è più carne, ma masso, «umor plumbeo», quando il poeta ha innanzi quella malattia, quella condizione di animo che lo condanna all’immobilità, e gli sorge l’idea che quella è la sua situazione normale, questa idea gli avvelena tutto il godimento della natura. E se vede la gallinella batter le ali e il sole indorare la pioggia, ad un tratto pensa che la natura gli faceva una volta goder sempre quella felicità, che ora è un istante, e che dovrà tornare a Recanati, e non gli resta che suicidarsi. Se il suo core si commove e palpita alla vista di una bella giovinetta, o a sentir un canto, che viene da una stanza