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298 giacomo leopardi

romita, ecco un grido che lo toglie da quello stato momentaneo e lo rimette in quello di prima.

Pur se talvolta per le piagge apriche,
Su la tacita aurora o quando al sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
Scontro di vaga donzelletta il viso;
O qualor nella placida quiete
D’estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L’erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all’opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L’arguto canto; a palpitar si move
Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo sopor; ch’è fatto estrano
Ogni moto soave al petto mio.

E fin la luna, che gli dà la forza di piangere e di lagrimare, non può guardarla se non mescolandola con le ricordanze di quando la malediceva. È un istante di felicità, al quale si abbandona contemplando, avvelenato dal pensiero che quello è un istante.

Non dirò che questa sia tra le poesie perfette. La concezione è originale, nuova affermazione del suo mondo; ma la forma non è di eguale bellezza. La descrizione della sua immobilità nella immobilità universale rimarrà eternamente bella tra le cose più perfette. Bella la pioggia mattutina, ma quando viene il suicidio, è una cosa prestabilita, non proprio allora scoppiata nell’anima. Anche quando dice:

                In cielo,
In terra amico agl’infelici alcuno
E rifugio non resta altro che il ferro,

si vede che il lampo del suicidio gli è venuto innanzi, ma non vi si ferma, quasi per evitare la tentazione. Verrà più tardi la