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impressioni politiche 107

tono mutava in quel tempo, e le imprecazioni erano contro i sanfedisti e Carolina e Ruffo, e si vantavano gli eroi del Novantanove, ancora a bassa voce e quasi all’orecchio. Gli uomini del Ventuno, messi in mala luce, cominciavano a ripulirsi e a circondarsi di un’aureola innanzi alla gioventù. Già si nominavano Pepe, Carascosa, Colletta. Quando Giuseppe Poerio, reduce, perorò la sua prima causa, una folla enorme trasse a sentirlo. Si diceva: — Andiamo a sentire il grande oratore — ; ma sotto c’era la simpatia per l’uomo politico. Mi sta ancora innanzi, nella causa, credo, di Longobucco. Squassava la bianca chioma come un Giove, tutto gesti, tutto nella causa. Si facevano paragoni tra il suo fare concitato e la calma dal Borelli, e l’uno i giovani giudicavano eloquente, l’altro facondo.

Io assisteva a queste dispute, invaso da un sentimento letterario, ch’era coperchio ai racconti del Ventuno e ai ricordi del Parlamento nazionale. La tribuna francese non era estranea a questo rialzo dello spirito. Ci aveva contribuito il ministero Thiers, dal quale si aspettavano grandi cose per la libertà dei popoli, e quel rumor di guerra, entro il quale s’inabissò il Thiers, fu accolto dalla gioventù con molta speranza. Ma venne Guizot, e addio! Thiers aveva una faccia che ci sorrideva; Guizot ci parve un brutto ceffo. Queste speranze, timori, opinioni, congetture, immaginazioni, mormorii politici erano in una cerchia assai ristretta. I più non ci pensavano e badavano ai casi loro, salvo in certi chiari di cielo, quando la voce si faceva un po’ più alta. Io per esempio ero tutto grammatica e lingua; Enrico era tutto nello studio di Vico: alla politica ci si pensava per parentesi, e più o meno, secondo i casi e gli accidenti del giorno. Ma la politica era il chiodo di zio Peppe, che lo martellava e lo faceva scattare; e non si guardava mai intorno, e tra compagni e amici le sballava grosse. Si vantava Carbonaro; gridava contro il tradimento di Francesco e del Carignano; ci narrava spesso del De Conciliis, gloria, diceva, della nostra provincia, raccontava il suo esilio, tramezzando le sue pene e i suoi sdegni con aneddoti piccanti: ch’era venuto in grazia a certe monache, e che aveva loro pagata una lauta messa, e contava di certe amicizie