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PAROLE IN MORTE DI LUIGI SETTEMBRINI


          Amici miei,

Quell’uomo li senza vita era nel 1835 un bel giovane a ventidue anni, e portava nell’anima il lutto di suo padre, morto qualche anno addietro, e la vita di suo padre. Tra indefessi studii greci e latini nella giovine mente si moveva accanto agli eroi di Livio e di Plutarco l’immagine di suo padre, il quale a lui, dotto di storie antiche, insegnava la storia recente del suo paese, che noi sogliamo compendiare in una sola parola pregna di memorie e d’insegnamenti, il novantanove. E il padre vi aggiungeva la storia sua, giacobino imberbe, soldato al Ponte della Maddalena, ferito, straziato, trascinato dalla moltitudine furibonda, gittato nelle prigioni, scampato per la soverchia giovinezza al patibolo, dannato all’ergastolo in Santo Stefano. Queste memorie il padre lasciava in ereditá al giovane.

E ora, orfano e povero, quelle memorie sono la sua ricchezza e il suo avvenire, e insegnando rettorica in Catanzaro, rivive in lui suo padre, e sogna libertá, sogna Italia una, e sognano con lui i De Luca, i Musolino, i Parisio, e passa di mano in mano secretamente, avidamente il Catechismo di Giuseppe Mazzini, e tutti erano settarii, e non ci era setta alcuna. La setta era il pensiero ereditario, ucciso nei padri e risuscitato nei figli, e la tirannide, colpendo sette e cospirazioni, dilatava, ingrandiva quel pensiero secreto, gli dava la pubblicitá de’ suoi giornali e delle sue persecuzioni, rendeva quel Catechismo il libro di lettura della gioventú italiana.