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24 primo corso tenuto a torino: lez. iv


il segno distintivo e quasi la faccia di questo genere. Il quale rimane manchevole, insino a che non vi comparisce in mezzo l’uomo. Allora la natura cessa di essere il principale e diviene come il teatro dell’azione umana: il poeta, ammirando le azioni eroiche e non intendendole, le spiega con l’opera di quello stesso maraviglioso onde ha spiegate le forze naturali, ed esseri fantastici diventano il movente occulto di tutto ciò che nella natura e nell’uomo non può comprendere l’intelligenza. Cosi la Teogonia si trasforma in Iliade e l’epica prende il nome di epopea. L’impressione che produce l’universo sull’anima, cavandone i piú diversi suoni, di maraviglia, di lode, di biasimo, di dolore, di gioia, di timore, di speranza, di odio, di amore, costituisce la lirica, libera effusione del sentimento. In questo stadio l’anima, rapita prima al di fuori dallo spettacolo ancor nuovo delle cose, si ritira in sé ed acquista valore di guardarsi al di dentro e di cantare se stessa. Nel dramma il concetto della vita si fa piú serio: l’uomo vi comparisce col suo carattere e con le sue passioni, e l’azione non esce piú da un estrinseco movente, ma riceve il suo impulso dalla volontá e dagli affetti umani, la cui potenza risalta nel loro contendere col fato, con la natura e con l’uomo.

Non è nostro intento di stabilire come si debba chiamare il lavoro dantesco: esso ha il suo nome di battesimo, e i posteri lo hanno serbato con quella stessa riverenza con cui si accetta il nome, quale esso si sia, che un astronomo pone al pianeta da lui scoperto. La Divina Commedia noi possiamo ancora chiamarla, come ha fatto altrove l’autore, un poema, denominazione appellativa e comodissima per tutti quelli che non vogliono prendersi l’impaccio di guardare nel fondo. Egli è vero che critici antichi e moderni l’hanno creduta un poema nel senso stretto della parola, e, guardandola da un lato solo, noi possiamo accostarci a questa opinione.

La Divina Commedia è la rappresentazione dell’universo morale, del regno della necessitá o di Dio, onde è sbandito il libero arbitrio e l’accidente: l’uomo stesso vi diviene natura, cioè in uno stato immutabile, senza successione, senza progresso.