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in quello che hanno di assoluto e di parziale: l’inferno di Dante mostra una confutazione di fatto assai piú efficace. L’inferno è il regno del brutto, e del solo brutto, concezione senza esempio presso gli antichi. D’altra parte l’inferno non è la vita umana nel suo avvicendarsi, ma la vita da un lato solo. E poiché l’inferno dantesco non è un fatto isolato, ma questo regno del brutto, col quale si apre l’arte moderna, s’è ito successivamente esplicando nel Boccaccio, nell’Ariosto, nel Cervantes, nello Shakespeare e nel nuovo romanticismo del nostro secolo, in Byron, Leopardi, Goethe e Victor Hugo, raggiungendo il suo estremo in Mefistofele, che è l’incarnazione del brutto, il brutto che si pone come brutto, le due scuole, piegando ed allargandosi innanzi a’ fatti, hanno dovuto recedere dal loro principio assoluto e tentare piú larga spiegazione.

La scuola classica sostiene che il brutto diviene poetico per la bellezza della sua rappresentazione, partendo dal principio che lo stile sia la veste del pensiero. Ornare il brutto è uno scoprirlo di piú: è la Gabrina dell’Ariosto vestita con gli abiti d’Isabella. E, lasciando star questo, Dante non solo non cerca di palliare ed abbellire, anzi la sua rappresentazione tende a lumeggiare e a rendere con evidenza il suo soggetto con tutto quello che esso ha di deforme. E valga, per esempio, la descrizione del suo Cerbero:

                                         Cerbero, fiera crudele e diversa,
Con tre gole caninamente latra
Sovra la gente, che quivi è sommersa.

     Gli occhi ha vermigli, e la barba unta ed atra,
E ’l ventre largo, ed unghiate le mani;
Graffia gli spirti, gli scuoia ed isquatra.

     .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .

     Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
Le bocche aperse, e mostrocci le sanne;
Non avea membro, che tenesse fermo.