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con la cosa. E perché oggi ancora, dopo di avere tanto veduto e tanto imparato, ci ha non pochi che se ne stanno ancora col loro Monti in bocca e ti recitano un’apostrofe contro l’«audace scuola» boreale, mi è parso bene d’insisterci con qualche calore. La poesia del Monti non solo è la fede di morte dell’antica mitologia, ma ancora l’ultimo rantolo della scuola classica.

Ma la critica non dee essere solo negativa; non ti dee dir solo com’è fatto un lavoro, ma come va fatto. L’autore non ha diritto di dire al critico: — Fa tu, — essendo il comporre e il giudicare due cose diverse; ma ben può chiedergli come si ha a fare. Il lavoro del Monti concepito a quel modo non può altro riuscire che mediocre per le ragioni discorse, rimanendo sempre in fondo un concetto prosaico. Bisogna toglierne ogni ragionamento, e quelle sentenze, e quegli argomenti ad hominem, uscire insomma dalla dissertazione. Ciò fatto, il lavoro resta un lamento ironico della morte degli dei e dell’arte antica sotto i colpi della scuola boreale. Deve essere un’ironia delicata, che a quando a quando accenni alla caricatura. Ma ironia e caricatura non sono armi da Vincenzo Monti; e, tolto questo, che altro rimane, se non un lamento serio? che fa esclamare il lettore: — Questi Dei son ben morti; quest’arte è ben tramontata! —

Dunque, né il Monti ha saputo vivificare la mitologia, né idealizzare il suo concetto, né usare con qualche felicitá l’ironia e la caricatura che doveva essere la Musa di questo sermone. Restano i versi sonanti, la maestá del periodo, e la copia, e la facilitá, e l’eleganza, belletti di cadavere. Chi se ne contenta, goda.

[Nel «Piemonte» di Torino, a. I, n. 227, 26 settembre i855.]