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la prima canzone di g. leopardi 349


Appunto perché la sua Italia è piuttosto un luogo comune, che una verace persona poetica «pur mo’ nata», ha tutta la ricchezza e l’affettazione di una vita apparente. Al Petrarca bastò il dire:

                               .  .  .  .  .  Piaghe mortali.
Che nel bel corpo tuo si spesso veggio.
                         
E, contento a questa semplice indicazione, va innanzi, tirato dalla gravitá e dall’ importanza delle cose che gli si affacciano. Ma il Leopardi, appunto perché il di dentro è vuoto, sta tutto al di fuori, e non resta che l’Italia non sia divenuta una statua perfetta.
                               Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè, quante ferite,
Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio.
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite, dite:
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Si che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
                         
Qui si vede il giovane tutto intento a formare una statua, non fantastica, come pur si dovrebbe, ma reale e compita, con gli ultimi tocchi e le ultime carezze, che raddolciscano l’impressione di quelle ferite e di quelle catene.

Succede uno scoppio di affetti e di sentimenti rapidissimi, accavallantisi gli uni sugli altri come onde furiose e spinti fino a quel sublime obblio, che è cosí vicino al comico

                               .  .  .  .  .  .  L’armi, qua l’armi! io solo
Combatterò; procomberò sol io.
                         

Or tutto questo è un gioco bellissimo di frasi, di movenze, li attitudini, di figure, un gioco che chiamerei rettorico, se