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le nuove canzoni di leopardi 225


Italia, dove la scorrezione della stampa non fa piú vergogna a nessuno. A quel tempo le comunicazioni erano lente e rare, e Leopardi dovè rassegnarsi, ed avere anche lui il suo copioso «errata-corrige». Il 3 aprile non ci siamo ancora, nuova difficoltá. I Revisori non vogliono dar la licenza; l’avvocato Brighenti vi perde la sua rettorica, perché «i teologi sono una sorte di gente cosí ostinata come le donne». Leopardi che non era un avvocato, ma un poeta, e, come diceva suo padre, ancora un fanciullo, a stento potè contenere la sua indignazione.

Io non domando licenza a’ frati quando penso né quando scrivo; e da questo viene che, quando poi voglio stampare, i frati non mi danno licenza di farlo.

I signori teologi passavano tutto, ma non potevano ingoiarsi la canzone di Bruto, un repubblicano, i cui elogi «offendevano i monarchi», e stimavano una bestemmia quel chiamare la virtú cosa vana. Il buon Leopardi entra in polemica, e «non veggo come ci entrano i monarchi», e io «dico della virtú umana, e non delle virtú teologali». Fra il si degli uni e il no dell’altro non ci sarebbe stata conclusione, se l’avvocato non avesse trovato il mezzo termine, cose per cui va famoso il sottile ingegno italiano. E si venne a questo compromesso, che in un «a chi legge» fosse dichiarato come l’Autore inculca l’amore verso la patria, e «non la disubbidienza, ma la probitá e la nobiltá cosí de’ pensieri come delle opere»: al quale effetto «riguardano... le istituzioni dei nostri governi;... e però dovunque i soggetti non si curano della patria loro, quivi non corrispondono all’intento de’ loro principi». Questo fu il lasciapassare de’ teologi. Finalmente, come Dio volle, il 23 agosto gli giunsero i primi fogli per farvi l’«errata-corrige», indirizzati a un nome finto, un signor Alberto Popoli, perché il povero Leopardi temeva piú dell’occhio paterno che di tutt’i teologi. Il 3 settembre la stampa è a termine e si pensa alla distribuzione delle copie. Sicché tra progetto, difficoltá ed esecuzione corse poco meno che un anno.
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De Sanctis, Saggi critici.-iii