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le «ricordanze» del settembrini | 307 |
Com’è gustosa questa parentesi! Lo vedi con quel suo risolino bonario e canzonatorio nella pena! La poesia operava in lui quello che il carattere nel signor Michele Aletta, un vecchietto di sessantadue anni, arzillo e allegro. Udite questo dialoghetto:
— Io voglio uscire, debbo uscire, ed uscirò. — Non usciremo, don Michele. — Ed io vi dico che usciremo subito. — Usciremo morti. — No, vivi, per Dio: mi han veduto nel mio paese due volte con la bandiera in mano, nel 1821 e nel 1848; mi rivedranno cosí la terza volta, e diranno come dissero: costui non muore piú. — Sí, ne usciremo dopo trent’anni. — No, dimani, oggi, più tardi può venire un vapore a prenderci. Il mondo cangia in un momento.
E Settembrini conchiude: «Egli non pensa, ma spera. Che disgrazia è pensare!». In quella vita tutta artistica, evocata e abbellita dall’immaginazione, s’insinua un filo di mestizia. Lo svago è grande, ma con frequenti ritorni sopra di sé. E inchina la fronte e pensa. «Che disgrazia è pensare!»
E Settembrini aveva questa disgrazia. Non era solo un artista. Ci era in lui l’uomo. C’era fede e sentimento.
Credeva in Dio, e più nella patria e nella libertà. Era la fede del secolo. Ma ne’ più era un credere ozioso e pigro. In lui era la sua vita. Giovane, prese moglie; aveva in vista la famiglia, era avido di affetti domestici, aveva per concorso una cattedra; tutto lo consigliava a starsi quieto. Ma che? Aveva nel cervello il catechismo di quel capo ameno di Musolino, battezzato catechismo di Mazzini, e cercava proseliti, e cospirava. Aveva fede di santo e di martire, disposto piú a soffrire fortemente che a vincere; gli mancavano tutte le qualitá che assicurano il buon successo. Cospiratore inabile, per poco discernimento degli uomini e per soverchia buona fede, cadde presto nelle unghie della polizia, tirandosi appresso i suoi amici.
La descrizione di quella prima prigionia è piena di brio e di lazzi, tutti giovani, spensierati, confidenti: si rivela già il suo