Pagina:De Sanctis, Francesco – Saggio critico sul Petrarca, 1954 – BEIC 1805656.djvu/118

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ii2 saggio critico sul petrarca


immaginato, è di non far parlare il senso, che sarebbe stata inescusabile pedanteria; ed avrebbe fatto della canzone una poesia allegorica ed astratta. Mentre la ragione mette in opera tutta la sua arte rettorica, il poeta sente il morso del senso. L’una parla con la mente, l’altro siede dentro l’alma, e preme il core di desio e lo pasce di speranza. Ci è un verso che rappresenta con cupa energia la sua forza contro gli sforzi dell’amante:

                                    E s’io l’occido, piú forte rinasce.      
Il quale ricorda, per la struttura e per il concetto, il famoso verso di Dante:
                                    E dopo il pasto ha piú fame che pria.      
La ragione gli pone innanzi degli argomenti, il senso gli pone innanzi Laura:
                                    Ed agli occhi dipigne
Quella che sol per farmi morir nacque,
Perché a me troppo ed a sé stessa piacque.
     
Il sentimento dominante della canzone, espresso come sentenza nell’ultimo verso, è la disperazione, la coscienza della sua impotenza contro l’amore. Il quale non l’inganna, ma lo sforza:
                                         Quel ch’i’ fo, veggio; e non m’inganna il vero
Mal conosciuto, anzi mi sforza Amore.
     
Sa che i beni promessi dall’amore sono ombre, che in un’ora svaniscono:
                                    Ond’io, perché pavento
Adunar sempre quel ch’un’ora sgombre,
Vorre’ il vero abbracciar, lassando l’ombre.