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i62 saggio critico sul petrarca


                                    Che del suo proprio error l’alma s’appaga:
In tante parti e si bella la veggio,
Che, se l’error durasse, altro non cheggio.
     

Chi non ricorda i bei versi del Leopardi?

                                                                  E potess’io
L’alta specie serbar! che dell’imago,
Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.
     

Aggiunge effetto la maraviglia del poeta, che rappresenta ciò che prova con gli occhi attoniti d’un fanciullo: «or chi fia che mel creda?». Ha l’aria di chi narra cose miracolose del regno delle fate. Con che voluttá si trattiene, con che ebbrezza, nelle sue illusioni! — Io l’ho veduta viva, dic’egli (notate quel «viva», non un fantasma, ma lei proprio), nell’acqua chiara, sopra l’erba verde, nel tronco d’un faggio, in bianca nube — :

                                    E quanto in piú selvaggio
Loco mi trovo e ’n piú deserto lido,
Tanto piú bella il mio pensier l’adombra.
     
La reazione non si fa attendere, e voi sentite il freddo della pietra nell’anima del poeta:
                                    Poi quando il vero sgombra
Quel dolce error, pur li medesmo assido
Me freddo, pietra morta in pietra viva,
In guisa d’uom che pensi e pianga e scriva.
     
La prima volta è un sospiro; la seconda volta è un gemito; ora è l’immobilitá d’una statua, è Niobe conversa in sasso. Notate singoiar paragone, un miscuglio involontario d’innamorato e di poeta! Sé, l’assiso freddo e senza moto, egli paragona ad un poeta, e certo a sé stesso, in quei momenti che nell’immobilitá del raccoglimento pensa e scrive piangendo. Di giogo in giogo sale in cima, onde scopre ampli orizzonti. Non so che