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ix. morte di laura i77


primo tumulto del dolore gli usci fuori un sonetto, che è un lungo gemito, il sonetto degli «oimè»:

                                    Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo.      

Questa fu la prima impressione del suo dolore: riafferrare un mondo, che è sparito per sempre. Tornano le stesse immagini, che abbiamo incontrate finora nelle poesie in vita di Laura; tornano, ma con un «fu», con un verbo di tempo passato, con un «oimè». Diresti che l’infortunato, con innanzi quel corpo morto, tanto amato, si diletti a rianimarne i tratti, a rifarlo bello, infino a che, esausto dallo stesso sforzo dell’immaginazione, s’abbandona e riabbassa il capo. Quando pensiamo al defunto, e ce lo figuriamo, e ricordiamo di lui questo e quello, lo scuro della fisonomia si scioglie, e ci sentiamo come disgravati, respiriamo piú liberamente: ciò cava la lagrima e raddolcisce la pena, la nutre, ma la raddolcisce. Vero è che, dopo questo obblio momentaneo, sopraggiunge piú acerba l’idea dell’annientamento, quasi l’immaginazione non avesse lavorato ad altro, che ad accrescere il sublime e l’orrore della perdita. Cosi il poeta abbozza in sette versi il ritratto dell’amata, e finisce con un verso, il verso rapido della morte, che ti fa venire il freddo (son. XXIV):

                                         Le crespe chiome d’òr puro lucente,
E ’l lampeggiar dell’angelico viso
Che solean fare in terra un paradiso,
Poca polvere son, che nulla sente.
     
Giá v’ha dipinto quelle «chiome d’oro» e quel «viso angelico»; ora il semplice ricordarlo con quel verbo passato, con quel «solean», che sveglia tante liete memorie, e con quell’ultimo pulvis est, mena a tale strazio, che ne scoppia fuori come un fulmine il sublime «ed io pur vivo!» del verso seguente:
                                         Ed io pur vivo; onde mi doglio e sdegno,
Rimaso senza ’l lume ch’amai tanto,
In gran fortuna e disarmato legno.
     

F. de Sanctis, Saggio sul Petrarca.

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