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i78 saggio critico sul petrarca


                                         Or sia qui fine all’amoroso canto:
Secca è la vena dell’usato ingegno,
E la cetera mia rivolta è in pianto.
     
Quel movimento di disperazione è subitaneo, e cede subito il luogo ad una rassegnazione trista, che chiameresti quasi una dolce mestizia. Il poeta si sente solo, e s’intenerisce sopra sé stesso; non sa per chi o per che dovrebbe ancora cantare, spezza la cetra e piange. Questo dolore puro di amaritudine, e che cosí subito si scioglie nel tenero, ci dá la misura della poesia petrarchesca.

Il dolore senza consolazione e senza speranza, la sublime ribellione dell’anima contro il fato, che ti fa correre lo spavento per le ossa in Leopardi, sono ignoti al Petrarca. E quindi gli è ignoto tutto ciò che si può chiamare il corteggio di questo sublime, il sarcasmo, l’indignazione, il disprezzo, la collera, l’odio, l’ironia, l’umore: il suo dolore non è tragico, grandezza negata a questa natura amabile, è puramente elegiaco. Ben qua e lá ne trovi un lampo, una momentanea emozione in momenti scuri, un accidente piuttosto che una qualitá della poesia. Cosi, in virtú della semplice collocazione delle parole, l’improvviso sparire di Laura ti colpisce di un sublime terrore nel seguente verso:

                                    E i lumi bei che mirar soglio, spenti.      
Quello «spenti», cosí staccato e improvviso, ti fa l’effetto di un cielo chiarissimo che tutto ad un tratto si rabbuja, e ti fa sentire come il freddo taglio della scure sul collo, nel pieno della vita e della giovinezza. Un’altra volta la solitudine del cuore, seppellito insieme con Laura, balza innanzi alla coscienza con cupa energia (son. XLIV):
                                         Noja m’è il viver si gravosa e lunga,
Ch’i’ chiamo ’1 fine per lo gran desire
Di riveder cui non veder fu meglio.