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i86 saggio critico sul petrarca


                                         Ma per me, lasso, tornano i piú gravi
Sospiri, che dal cor profondo tragge
Quella ch’ai ciel se ne portò le chiavi:
     E cantare augelletti, e fiorir piagge,
E ’n belle donne oneste atti soavi,
Sono un deserto, e fere aspre e selvagge.
     

Chi non ricorda l’aria piú serena, l’erba fatta più verde dalla presenza di Laura, e le «chiare, fresche e dolci acque»? Ora torna colá; e solo chi dopo lunga lontananza rivede il suo paese, e nel tumulto confuso di mille memorie felici trova vòta la casa paterna, può sentire, appena giunto, l’indefinibile tenerezza delle prime impressioni, si che l’aria stessa par che abbia qualche cosa di proprio e di caro, l’aria del paese; e poi come tutt’a un tratto si faccia scuro intorno, avanti a quel nido vóto!

                                         Sento l’aura mia antica, e 1 dolci colli
Veggio apparir, onde ’l bel lume nacque
Che tenne gli occhi miei, mentre al Ciel piacque,
Bramosi e lieti, or li tien tristi e molli.
     O caduche speranze! o pensier folli!
Vedove l’erbe, e torbide son Tacque;
E vóto e freddo ’l nido in ch’ella giacque...
     

Ripassa per quella valle, per quei sentieri, per quel colle, testimoni superstiti di tante gioje, e tutto è sparito: quella valle suona di lamenti, ed il colle giá tanto desiderato, onde vedea il suo bene, or gli rincresce, ché vede di colá avviarsi l’anima al cielo:

                                         Valle, che de’ lamenti miei se’ piena,
Fiume che spesso del mio pianger cresci.
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .
Colle che mi piacesti, or mi rincresci,
Ov’ancor per usanza Amor mi mena;
     Ben riconosco in voi l’usate forme,
Non, lasso, in me, che da sf lieta vita
Son fatto albergo d’infinita doglia.