Pagina:De Sanctis, Francesco – Saggio critico sul Petrarca, 1954 – BEIC 1805656.djvu/193

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ix. morte di laura i87


                                         Quinci vedea ’l mio bene; e per quest’orme
Torno a veder ond’al ciel nuda è gita.
Lasciando in terra la sua bella spoglia.
     

Quantunque la natura immutabilmente serena sia qui in contrasto con l’amarezza della sventura, pur senti che quest’amarezza è giá vinta, poiché il poeta ha la forza di guardarsi intorno, contemplar la natura, paragonarsi con quella, volgerle la parola. Sa che la vista di quella valle, di quel colle, gli è dolorosa; e pure ci ritorna, perché vuol piangere. Ne nasce una specie di consonanza funebre tra il poeta e la natura, divenuta come il coro che risponda a’ suoi gemiti, e quasi la sua amica e la sua confidente, si che non sa vivere, non sa dolersi senza di lei. Non gli basta dire: — Io sono infelice — ; ma vuole che gli altri lo sentano, ma vuole la natura a testimonio e partecipe (son. XXXV):

                                         Fior, frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi,
Valli chiuse, alti colli e piagge apriche,
Porto dell’amorose mie fatiche.
Delle fortune mie tante e si gravi;
     O vaghi abitator de’ verdi boschi,
O ninfe, e voi che ’l fresco erboso fondo
Del liquido cristallo alberga e pasce,
     I di miei fur si chiari, or son si foschi;
Come morte, che ’l fa. Cosi nel mondo
Sua sventura ha ciascun dal di che nasce.
     
Il dolore sfogato va a finire nella rassegnazione, e l’ultimo motto è un: ad hoc nati sumus. Non v’attendete però da questa tenera natura ciò che la rassegnazione ha di logico o d’eroico; non c’è propriamente né ribellione, né rassegnazione, ma un lamento inesausto che rasenta i due estremi, un bisogno d’espansione che rende loquace il dolore e lo allevia (son. VIII):
                                    Cerco, parlando, d’allentar mia pena.