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ix. morte di laura i89


Quelle similitudini gli fanno lampeggiar dinanzi delle veritá generali, ch’egli esprime non come filosofo, ma col gusto amaro di chi le assapora. Di che è rimasto esempio immortale il sonetto del rosignuolo. Dolce è il canto del rosignuolo: è un luogo comune, che per le anime malinconiche ha tutta la poesia delle prime e delle nuove impressioni. Il Petrarca sente nel dolore del rosignuolo cantare il suo proprio, se ne fa un amico, presta avido l’orecchio a quel lamento pieno di dolcezza, s’intenerisce e si lamenta anche lui. La morte di Laura, la caducitá di tutti i piaceri e beni terrestri sono fatti fatali; e pure non ci avea pensato, non gli era venuto mai in mente che Laura dovesse morire. Ora, dopo il fatto esprime questa legge inevitabile della creazione con l’angoscia di chi n’è vittima. Semplicitá, affetto, naturalezza attestano qui una forza geniale, generata dal dolore, ma da un dolore soave cullato dalle grazie:

                                         Quel rosignuol che si soave piagne
Forse suoi nati o sua fida consorte,
Di dolcezza empie il cielo e le campagne
Con tante note si soavi e scorte;
     E tutta notte par che m’accoropagne
E mi raramente la mia dura sorte:
Ch’altri che me non ho di cui mi lagne;
Che ’n Dee non credev’io regnasse Morte.
     O che lieve è ingannar chi s’assecura!
Que’ duo bei lumi, assai piú che ’1 Sol chiari,
Chi pensò mai poter far terra oscura?
     Or conosch’io che mia fera ventura
Vuol che vivendo e lagrimando impari
Come nulla quaggiú diletta e dura.
     
Un poeta che si consola col rosignuolo e col vago augelletto, che fa del suo dolore segretarii i monti e le valli, e grida ben alto ch’egli è l’infelicissimo dei viventi, appunto per questo è giá meno infelice. Ben presto quel sepolcro si schiude, e n’esce Laura trasfigurata.

Laura non è morta; anzi ora comincia a vivere. Questa