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x. trasfigurazione di laura | i93 |
Sol di lei ragionando viva e morta. Anzi pur viva, ed or fatta immortale, Acciocché il mondo la conosca ed ame. Piacciale al mio passar esser accorta, Ch’è presso ornai; siami a l’incontro, e quale Ella è nel Cielo, a sé mi tiri e chiame. |
Questo sonetto comincia con gran foga, e, rallentandosi fra via, finisce in un sospiro. Quel «duro sasso», quel «loco oscuro e basso», quel «di viver lasso», quelle «orribil onde», segnano sentimenti divenuti familiari, attraversati da altri affatto nuovi. Il bel corpo tanto lacrimato è chiamato, con cristiano disprezzo, il «mortale». Una tomba non può essere guardata senza lacrime; una tomba vuol dire: — Ella è morta! — . Ma questa tomba, che nasconde il suo caro tesoro, gli dice: — Ella è in cielo! ella ti sente! — . Certo, ella è viva in cielo, in terra è morta: distinzione che giustifica le lagrime del cristiano, condannato a rimanere in terra senza di lei. Ma il poeta comincia a staccarsi dalla terra ed abitare in anima nel cielo, a volger colá tutto sé, come a sua vicina patria, e può ora, dopo d’aver, secondo la distinzione volgare, parlato d’una Laura viva e d’una Laura morta, riprendersi con una sublime correzione, e soggiugnere:
Anzi pur viva, ed or fatta immortale. |
Le due Laure cominciano a confondersi in una sola; la terra comincia a sparire nel cielo. Dico comincia, perché il poeta non si può staccare dalla terra, non da quel bel corpo, senza sforzo, senza mandar fuori gli ultimi lamenti. Laura gli apparisce e lo consola; fugace consolazione, a cui succede con tanto piú di violenza l’invitta rimembranza della perdita; appunto perché può cacciarlo via un momento, risorge con piú possanza il sentimento della sua solitudine. Il passato vicino a morire morde con rabbia:
Discolorato hai, Morte, il piú bel volto, Che mai si vide, e i piú begli occhi spenti; Spirto piú acceso di virtuti ardenti, Del piú leggiadro e piú bel nodo hai sciolto. |
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