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204 saggio critico sul petrarca

solare da lei con parole che la pietá, la tenerezza, l’amore rendono eloquenti:
                                    Non pianger piú; non m’hai tu pianto assai?      
Ditemi, dunque, che magia c’è in questo verso, cosí facile, cosí semplice, di tanto effetto sul cuore? «Non pianger piú»: eppure questo v’invita a piangere, di un pianto che fa bene, che allevia, precursore d’un sorriso. Quel fanciullo, che sta li duro e tetro innanzi alle riprensioni del padre, se la madre sopraggiunta gli accarezza la guancia, s’intenerisce, scoppia a piangere, e fra le lacrime si rabbonisce e si consola. Ciascuno è un po’ fanciullo. Se, mentre piangi, l’amata t’asciuga gli occhi, e in tono carezzevole, insinuante, ti dice: — Non piangere — ; non è vero, che le lacrime scorrono in piú abbondanza, e che senti ad un tempo stesso che sei giá guarito? (son. LXX):
                                                             al letto in ch’io languisco,
Vien tal ch’appena a rimirar l’ardisco,
E pietosa s’asside in su la sponda.
     Con quella man che tanto desiai,
M’asciuga gli occhi, e col suo dir m’apporta
Dolcezza ch’uom mortai non senti mai.
     Che vai, dice, a saver, chi si sconforta?
Non pianger piú; non m’hai tu pianto assai?
Ch’or fostú vivo com’io non son morta.
     
Quest’ultimo pensiero giunge repentinamente, e nella sua rapiditá d’espressione sorprende, ma resta nell’intelligenza, non ha tempo di colpire l’immaginazione. Fa l’effetto come di un brusco passaggio di tono, d’una dissonanza. Altrove è sviluppato in modo, che da un moto d’irresistibile tenerezza ti senti gittato come percosso da improvviso splendore nella regione del sublime (son. XI):
                                         Deh perché innanzi tempo ti consume?
Mi dice con pietate: a che pur versi
Dagli occhi tristi un doloroso fiume?