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208 | saggio critico sul petrarca |
dall’amante: onde quel non so che di tenero e di flebile, che suona nella rimembranza di un passato doloroso, rimaso vivo in paradiso:
I’ son colei che ti die’ tanta guerra, E compie’ mia giornata innanzi sera. |
Quante memorie si aggruppano intorno a quel «tanta»; e che immagine malinconica è quella giornata compiuta innanzi sera! Bentosto la santa si nasconde ne’ suoi rai come in un santuario, inviolabile all’occhio mortale; si sente distinta dall’uomo, sopra l’umanitá: — Voi, uomini, non potete capire la mia beatitudine — :
Mio ben non cape in intelletto umano. |
Ma in quel santuario l’umanitá la raggiunge, come cosa sua; la donna si rivela immediatamente. In grembo all’eterna beatitudine si sente sola, perché l’amante non è seco; e non sol questo. Con uno di quei sentimenti, che costituiscono il piú delicato ed il piú intimo della natura femminile, la santa desidera anche il bel corpo, perché bello e perché la rendea cara all’amante; e dall’alto del paradiso volge uno sguardo laggiú, dov’è rimaso:
Te solo aspetto, e, quel che tanto amasti, E laggiuso è rimaso, il mio bel velo. |
Non dubito di dire che queste poche parole di Laura la fissano piú nell’immaginazione, che tutte le descrizioni fattene dal poeta. Il quale, rimaso immobile, sospesi tutt’i sensi e direi quasi ogni apparenza di vita nel suo rapimento, come la voce tace, e non sente piú quella mano, prorompendo in un gemito, s’accorge che si trova in terra:
Deh perché tacque ed allargò la mano? Ch’ai suon de’ detti si pietosi e casti Poco mancò ch’io non rimasi in cielo. |