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2i2 | saggio critico sul petrarca |
Un’altra volta trova che le lodi fatte a Laura sono infinitamente al di sotto di lei, e, come dice, «breve stilla d’infiniti abissi» (son. LXVII):
Che stilo oltra l’ingegno non si stende; E per aver uom gli occhi nel Sol fissi, Tanto si vede men, quando piú splende. |
In quest’ultimo stadio s’era dato a raccogliere e limare i suoi lavori, sopratutto le rime, con l’occhio alla posteritá. Con quello scontento di sé, ch’è proprio di ogni gran poeta, trova che avrebbe potuto, che potrebbe far meglio (son. XXV):
ogni mio studio in quel temp’era Pur di sfogare il doloroso core In qualche modo, non d’acquistar fama. Pianger cercai, non giá del pianto onore. Or vorrei ben piacer; ma quella altera. Tacito, stanco, dopo sé mi chiama. |
Sono gli ultimi moti di un cuore stanco. Dice ancora: — Se Laura non fosse morta, e se l’amore fosse ito continuando infino a vecchiezza (son. XXXVI),
Di rime armato, ond’oggi ini disarmo, Con stil canuto avrei fatto, parlando, Romper le pietre e pianger di dolcezza. |
Ed ha ragione. Il suo «stile canuto» è senza fiori, pieno di succo, e nella sua concisione chiaro e naturale, soprattutto affettuosissimo. Ma ora se il poeta nella parte tecnica è pur sempre maestro di stile, la musa ispiratrice inaridisce. E se si volge a Dio, non è giá nuova passione, ma stanchezza d’ogni passione. Nessuno potrebbe dipingerlo meglio di lui stesso (son. LXXXIV):
Tennemi Amor anni ventuno ardendo Lieto nel foco, e nel duol pien di speme; Poi che Madonna e ’1 mio cor seco insieme Salirò al ciel, dieci altri anni piangendo. |