Pagina:De le lettere.djvu/11

Da Wikisource.

di tanta arrogantia, nε di ʃi pꞶco ʃapere, che ardiʃcano di dire, ch'elle non ʃiano a la diligεnte pronuntia Italiana neceʃʃarie. Ma alcuni di eʃʃi fꞶrʃe diranno, che non li piaccia l'innovare, altri, che tale divεrʃa pronuntia ʃi potrebbe per qualche altro piu facile mꞶdo manifeʃtare; a li quali rispondεndo dico. Ɛ prima a quelli, che dicono, che non li piace l'innovare, dimando, ʃe eʃʃi pꞶrtano le vεʃte, ε fanno tutte l'altre cꞶʃe, come facevano i padri loro; Ꞷ pur vanno Ꞷgni giorno, ʃecondo i tempi, εt il biʃꞶgno, molte cꞶʃe innovando; Ɛt anchora li dimando, ʃe ʃanno, che ne le loro città molte arti, molti coʃtumi, ε molte leggi ʃiano ʃtate alcuna vꞶlta innovate. Se adunque non ʃolamente nel vivere privato, ma ne le arti, ne i coʃtumi, ε ne le leggi publiche tutto 'l giorno s'innuꞶva; perchè non ʃi dεe fare queʃto medeʃimo ne la ʃcrittura? la quale ὲ demoʃtratrice, ε conʃervatrice de i nꞶʃtri concetti; maʃʃimamente in tale, ε così εvidεnte neceʃʃità. Non ʃanno eglino, che tutte le arti, ε tutte le discipline ʃono venute a la perfectione loro per lo aggiungere, εt innovare? Ɛ chi non ʃa, che ʃe Palamεde, SimꞶnide, Ꞷ Ɛpicharmo