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ʃεmpre ʃi pꞷngono queʃti dui charactέri nel’A, B; l’uno de li quali dimandano zea, ε l’altra çeta; il che dimoʃtra, che ivi anticamente havevano queʃta differεntia, la quale hꞷra ὲ confuʃa. Apprεʃʃo ci ha parʃo di notare anchora la differεntia, che ὲ tra lo i, ε lo u, quando ʃono conʃonanti, ε quando vocali; Ɛ perὼ, quando ʃaranno vocali, si ʃcriveranno per le conʃuεte cancellareʃche; ma, quando ʃaranno conʃonanti, lo i ʃi ʃcriverà per uno j lungo, che ʃi εxtεnda di ʃotto da la riga, ε lo u per uno v antico. Ɛt avegna che la differεntia di queʃte due ultime lettere ʃia neceʃʃaria in pꞷche parole, come in uꞷpo, lacciuꞷli, figliuꞷli, ε ʃimili, ove lo u vocale per conʃonante lεggere ʃi potrεbbe, tal che la vera pronuntia ʃi turberεbbe, pur ci ha parʃo utiliʃʃima cꞷʃa il diʃtinguerle. Adunque le lettere, che habbiamo diʃtinte, εt a l’alphabεto aggiunte, ʃono cinque; ciꞷὲ tre di grandiʃʃima neceʃʃità ε apεrto, ꞷ apεrto, ε ç obtuʃa, ꞷver ʃimile al g; ε due di neceʃʃità minore; ma di diʃtintione, εt utile aʃʃai; ciꞷὲ j conʃonante, εt v conʃonante; le quali tutte hanno le loro majuʃcule, che ʃono Ɛ, Ꞷ, Ʒ, J, V. Pare,