Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/109

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fra tanti — inutili parole di rimprovero, lo salutava e si intratteneva con lui; Anania ricordava sua madre e sentiva vergogna di se stesso che osava pensare a Margherita; eppure entrambi, lo studente e il vizioso, dopo aver veduto la figura bonaria dell’uomo retto, provavano una gioia timida e grata.

Picchiarono ancora.

— Ebbene, chi è? — gridò il mugnaio, smettendo di cantare e di zappare.

— Vado io, — disse Anania, mettendosi a correre e agitando il libro in aria, mentre zio Pera diceva:

— Se è il padrone bisogna che Efes si alzi e finga di lavorare: è una vergogna che lo si trovi sempre lì, buttato per terra come un cane morto.

Nanna emise una specie di grugnito, raccogliendosi fra le gambe rosse seminude le sottane lacere. Zio Pera gridò, rivolto all’ubriaco: — E dunque, palandrone, alzati e fingi di aiutarci....

Efes fece atto di sollevarsi, ma subito Nanna si ribellò:

— Ed io me ne vado! Perchè deve egli fingere di lavorare? Perchè lo insultate, zio Pera Sa Gattu, che voi siate pelato? Non sapete che egli era ricco, e che anche così come egli è vale sempre più di voi?

— Tu lo difendi! Corvo con corvo non si cavan gli occhi! — sogghignò il vecchio, alludendo al vizio della donna: ma la contesa fu