Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/111

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— Mamma, dateci il caffè, — gridò Anania dalla strada; poi introdusse l’ospite nella sua cameretta e cominciò come un bimbo a fargli vedere le sue cose.

Mobili strani riempivano la camera lunga c stretta, dal soffitto di canne coperte di calce, e il pavimento di terra: due arche di legno, rassomiglianti agli antichi cofani veneziani, sulle quali un primitivo artista aveva scolpito grifi ed aquile, cinghiali e fiori fantastici; un cassettone piramidale, canestri appesi alle pareti accanto a quadretti con la cornice di sughero; in un angolo un’olla per olio, nell’altro il lettino di Anania, coperto da una stoffa di lana grigia filata da zia Tatana; e fra il lettino e la finestruola, che guardava sul sambuco del cortile, un tavolino con un tappeto di percalle verde, ed una scansia di legno bianco nei cui angoli la fantasia artistica di Maestro Pane aveva traforato, forse ad imitazione delle arche, foglie e fiori antidiluviani. Sul tavolino e nella scansìa stavano pochi libri e molti quaderni; tutti i quaderni scritti da Anania; parecchie scatole legate misteriosamente, calendarii e pacchetti di giornali sardi. Tutto era pulito ed ordinato: dalla finestra penetravano onde d’aria profumata, sul pavimento bruno qua e là screpolato volteggiavano, quasi inseguendosi e scherzando, due foglie di sambuco; sul tavolino stava aperto un volume dei Miserabili.

Quante, quante cose Anania avrebbe potuto e voluto far vedere al giovinetto straniero, come