Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/168

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che tanto meno a voce avrebbe avuto il coraggio di spiegarsi, e s’adirava per la sua viltà, ma nello stesso tempo si confortava nella vergognosa certezza che la sua viltà appunto gli avrebbe impedito di compiere quella che egli chiamava la sua missione. A volte, però, questa missione gli appariva così eroica che l’idea di rinunziarvi lo rattristava.

— La mia vita sarebbe inutile, come per la maggior parte degli uomini, se io rinunziassi a ciò! — pensava. Ed in quei momenti di romanticismo non gli dispiaceva la lotta fra il suo dovere terribile e il suo amore ingrandito morbosamente dalla lotta.

Dopo la sera della rissa non s’affacciò più al balcone sulla strada; la vista delle casette, dalle quali neppure i ricorsi alla Questura riuscivano a snidare le triste inquiline, gli faceva male; tuttavia, rientrando a casa, egli vedeva spesso le due donne, o sul balcone, fra i garofani e gli stracci, o sedute sul limitare della porta.

Una specialmente, — quella del Capo di Sopra, — alta e snella, coi capelli nerissimi e gli occhi d’un turchino vivo, attirava la sua attenzione. Si chiamava Maria Rosa; Marta Rosa; Marta Rosa; era quasi sempre ubriaca e a giorni vestiva miseramente e girava per le strade scarmigliata, scalza o in ciabatte rosse, a giorni usciva elegantemente vestita, in cappello, in mantellina di velluto viola guarnita di piume bianche. Qualche volta si metteva sul balcone, fingendo di cucire, e