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che vive a Roma: anch’essa mi narrava delle storie, ma non belle come le vostre.
— Vive a Roma? E come fece ad andarci? Ah, io morrò senza aver veduto Roma!...
Dopo il modestissimo pasto, Anania cercò la guida, con la quale combinò per l’indomani l’ascensione sul Gennargentu: poi si avviò alla Basilica.
Nell’antico cortile, sotto i grandi alberi susurranti, sui gradini corrosi, nelle loggie rovinate, entro la chiesa odorante d’umido come una tomba, da per tutto silenzio e desolazione.
Anania depose il cero di zia Varvara sopra un altare polveroso, poi guardò i primitivi affreschi delle pareti, gli stucchi dorati da una luce melanconica, le rozze figure dei santi sardi, tutte le cose infine che un tempo gli avevano destato meraviglia e terrore, e sorrise, ma col cuore oppresso da una languida tristezza. Ritornato nel cortile vide, attraverso una finestra aperta, il cappello d’un carabiniere e un paio di stivali appesi al muro d’una cella, e nella memoria gli risuonò ancora l’aria della Gioconda: «A te questo rosario».
L’odor della cera vagava nel cortile solitario; dov’erano i bimbi, compagni d’infanzia, gli uccelletti semi-nudi e selvatici, che un tempo animavano i gradini della chiesa? Anania non desiderava di rivederli; ma con quanta dolcezza ricordava i giuochi fatti con loro, mentre dagli alberi le foglie secche cadevano come ale d’uccelli morti!