Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/282

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guardando Olì che piangeva sempre, sentì la sua ira sbollire, svanire. Un senso di gelo lo invase. Chi era quella donna che egli ingiuriava? Quel mucchio di stracci, quella lurida lumaca, quella mendicante, quell’essere senza anima? Poteva ella capire ciò che egli le diceva? Ciò che ella aveva fatto? E d’altronde che poteva esserci di comune fra lui e quella creatura immonda? Era poi davvero sua madre, quella? E se lo era, che significava, che importava? Madre non è la donna che dà materialmente alla luce una creatura, frutto d’un momento di piacere, e poi la butta nel mezzo della strada, in grembo al perfido Caso che l’ha fatta nascere. No, quella donna lì non era sua madre, non era una madre, sia pure incosciente: egli non le doveva nulla. Forse non aveva diritto di rimproverarle i suoi errori, ma non doveva neppure sacrificarsi per lei.

Sua madre poteva essere zia Tatàna, poteva essere zia Grathia, e magari Maria Obinu, e magari zia Varvara o Nanna l'ubriacona; tutte, fuorchè la miserabile creatura che gli stava davanti.

— Avrei fatto bene a non occuparmene, davvero, come consigliava zia Grathia, — pensò. — E forse è meglio che essa riprenda la sua via. Che può importarmi di lei? No, non me ne importa niente.

Olì continuava a piangere.

— Finitela, — diss’egli freddamente, ma non più irato; e siccome ella piangeva più forte, egli