Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/283

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si volse alla vedova e le fece celino di confortarla e farla tacere.

— Non vedi che ha paura? — mormorò la vedova, passandogli vicina. — Su! su! — disse poi, battendo una mano sulle spalle di Olì. — Finiscila, figlia. Fatti coraggio, abbi pazienza. È inutile piangere; egli non ti divorerà, poi; è figlio delle tue viscere, dopo tutto. Su! su! Adesso prendi un po’ di caffè, poi discorrerete meglio. Fammi il piacere, figlio, Anania, va un po’ fuori: poi ragionerete meglio. Va fuori, gioiello d’oro.

Egli non si mosse, ma Olì si calmò alquanto, e quando zia Grathia le portò il caffè, ella prese tremando la tazza e bevette avidamente, guardandosi attorno con occhi ancora spaventati, diffidenti, eppure attraversati da balenìi di piacere. Ella era avida del caffè, come quasi tutte le donnicciuole sarde, ed Anania, che aveva un po’ ereditato questa passione, la guardava e la studiava, ridiventato perfettamente cosciente; e gli pareva di scorgere una bestia selvatica e timida, una lepre rosicchiante l’uva nella vigna, trepida per il piacere del pasto e per la paura di venir sorpresa.

— Ne vuoi ancora? — domandò zia Grathia, chinandosi e parlando ad Olì come ad una bambina. — Sì? No? Se ne vuoi ancora dimmelo pure. Dà qui la chicchera, e alzati, su, lavati gli occhi, sta tranquilla. Hai sentito? Su, figlia!

Olì si alzò, aiutata dalla vecchia, e andò diritta alla tinozza dell’acqua dove usava lavarsi