Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/288

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— Io non resto.

— Che cosa? — egli gridò sporgendosi in avanti, coi pugni stretti e gli occhi spalancati. — Spiegatevi meglio.

Ah, dunque non era tutto finito? Ella osava? perchè osava? Ah, ella dunque non capiva che suo figlio aveva sofferto e lottato durante tutta la sua vita per raggiungere uno scopo: quello di ritirarla dalla via della colpa e del vagabondaggio, anche sacrificandole tutto il suo avvenire? Perchè ora ella osava ribellarglisi, perchè voleva sfuggirgli ancora? Non capiva che egli le avrebbe impedito di far ciò, anche a costo d’un delitto?

— Spiegatevi! — egli ripetè, dominando a stento la sua collera.

E stette ad ascoltare, fremente, esaltato, ficcandosi le unghie puntute sulle palme delle mani, mentre il suo viso andava di momento in momento deformandosi sotto la pressione di un dolore senza nome.

Zia Grathia lo fissava, pronta anch’essa a gettarglisi sopra se egli osava toccare Olì. Fra le tre creature selvagge, riunite intorno al focolare, la fiamma di un tizzo sorgeva azzurrognola e cigolava: pareva piangesse.

— Ascoltami, — disse Olì animandosi, — non adirarti, tanto oramai la tua collera è inutile. Il male è fatto e nulla più lo può rimediare: tu puoi uccidermi, ma non ne ritrarrai alcun benefizio. L’unica cosa che tu possa fare è di non occuparti di me. Io non posso restare qui: