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Il cipresso | 255 |
— Io sono giovane e ubbie non ne ho: e voglio vivere, e possedere il mondo; — le dico con voce così alta che ella si tappa comicamente le orecchie. — Il cipresso non lo tagliamo, no, perchè a me piace: a me vedete, sembra invece l’albero della fortuna, e voglio tenerlo.
— Va bene, — ella disse sottovoce: — ma tu conosci la legge?
— La legge me la faccio io.
Ella non replicò: si alzò, piano piano, come per farmi veder meglio come era alta: era alta, sì, davanti a me piccolina, e rigida e forte della sua dura vecchiaia: non le mancava che un codice in mano per rappresentare la legge.
*
Un mese dopo venne l’usciere con la carta bollata che domandava la morte dell’albero.
Fu la volta che tutti in casa si trovarono d’accordo a resistere alla pretesa del vicino: si cominciò dunque la lite, e dapprima gli avvocati, poi il vice pretore e i cancellieri vennero a fare il sopraluogo.
L’albero se la godeva nella primavera dolce che gonfiava e lucidava le sue foglie austere: non era mai stato così rigoglioso; e odorava di ginepro: quella che soffriva