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260 | il flauto nel bosco |
Mi volsi e gli accarezzai la testa di velluto; e subito ho sentito che finalmente anch’io avevo nel mondo un amico.
Anche lui parve lieto di qualche cosa nuova: di pesante si fece leggero, corse davanti a me quasi danzando nell’acqua donde le sue zampe pulite emergevano fra nugoli di scintille: e di tanto in tanto si fermava ad aspettarmi, volgendosi per vedere s’ero contenta di lui.
I suoi occhi erano felici, come credo fossero i miei; avevamo entrambi dimenticato molte cose.
E il mare ci accompagnava terzo in questa bella passeggiata, anch’esso oblioso delle collere che troppo spesso, ma non più spesso che a noi, lo sollevano. E le onde giocavano coi nostri piedi.
E anche l’immagine del sole, nell’umido specchio della riva, ci precedeva ostinata a non lasciarsi raggiungere nè guardare.
Due giovani alti passarono reggendo per le braccia come un’anfora una piccola ragazza bionda: poi più nessuno.
Si andò così fino a un luogo lontano, un cimitero di conchiglie: conchiglie morte sparse come ossa in un campo di battaglia.
Pare di essere all’estremità della terra, dove l’uomo non arriva: l’orma sola degli uccelli svolge lunghi merletti serpeggianti sulla duna immacolata.