Pagina:Deledda - Il ritorno del figlio - La bambina rubata, Milano, Treves. 1919.djvu/102

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Ma a poco a poco anche qui una specie di ubriachezza mi prese. Vedevo delle figure d’uomini passare sull’orlo del mare, scomposte dal lampeggiante splendore dell’acqua: se si fermavano, però, nere sull’azzurro e sull’argento, parevano quelle figure di statue che campeggiano sulle terrazze delle cattedrali, ferme di contro all’infinito.

Come dovevano essere felici questi uomini! Ciascuno di essi aveva il suo posto nel mondo, la casa dove tornare, la donna da amare. Io solo vivevo in un sogno vergognoso.

Trassi il taccuino e scrissi alla zia: “Io voglio lavorare, voglio vivere: lascio la vostra casa e me ne vado per il mondo in cerca di un posto”.

Dove, non sapevo; ma ero deciso a tutto, a fare il manovale, il mietitore, il facchino; pur di guadagnarmi la vita e potermi ancora presentare a Fiora non come un vagabondo ma come un lavoratore.

Tornai a casa con l’intenzione di lasciare il foglietto sulla tavola e di andarmene di nascosto quella notte stessa.

La lunetta della porta a vetri era illuminata; segno che la zia mi aspettava, forse inquieta per la mia assenza insolita: ma ciò non mi commosse: