Pagina:Deledda - Il ritorno del figlio - La bambina rubata, Milano, Treves. 1919.djvu/199

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Al rumore dei miei passi l’uscio della cucina si socchiuse e subito intravidi la balia con una grande scodella in mano: mi guardò con l’avidità con cui mangiava: avidità di sapere perché ero lì.

La padrona la chiamò, le disse di farmi vedere la bambina, poi si volse a me accennandomi di seguire la balia: si entrò nel salotto attiguo, e la prima cosa che distinsi, nella penombra, fu la porta finestra difesa da una semplice persiana che dava sulla strada.

Tante volte passando di fuori avevo veduto quella persiana socchiusa e l’interno del salotto, col solito arredamento paesano: tavola rotonda in mezzo con un mazzo di fiori finti, uno specchio pur esso ornato di fiori a smalto, divano e sedili ricoperti di goffi merletti. Adesso c’era anche una grande culla di vimini: la balia sollevò un lembo della stoffa che la copriva, e non ostante la penombra e sebbene guardassi rigido dall’alto senza troppo avvicinarmi né chinarmi vidi distintamente il piccolo viso, non più grande di una grande rosa, ma già vivo, balzante verso di me da una profondità che era quella dell’anima mia stessa. Gli occhi erano aperti, placidi, nuotanti come in un velo di piacere, le labbra strette succhiavano l’aria.