Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/174

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lato nel suo lettuccio; e questi, mentre io prendevo congedo, mi strinse di nuovo la mano in modo significativo, guardandomi fisso e amichevole come se fra noi ci fosse un’intesa segreta.

Il frate disse che era costretto ad andarsene anche lui; raccomandò alla vecchia di badare al padrone, di non lasciarlo solo, di fargli prendere la medicina; e aspettò che si andasse via assieme, facendo un gesto quasi sprezzante, come a dire: — non ne vale la pena — quando io espressi il doveroso desiderio di salutare la signorina. Ma la signorina era in agguato, e saltò fuori da un uscio del corridoio, rossa in viso come il suo vestito: anche gli occhi aveva rossi si vedeva bene che aveva pianto. Mi domandò scusa delle impertinenze dette a tavola, e a sua volta alzò le spalle quando risposi che, se mai, le scuse doveva farle a padre Leone: il quale, uscendo precipitoso, certo che io lo avrei seguito, batteva le mani gridando:

— Andiamo, andiamo.

Ma io tenevo la mano di Agar nella mia; e mi pareva di aver preso un uccello, tanto quella mano era morbida, calda e pulsante: ed ella si piegò un poco, sulle nostre mani unite, e mormorò, quasi parlando solo ad esse:

— Ho bisogno di dirle una cosa. Ritorni.

Ritornare? Quando? Ella non lo disse. Ritorni. Tanto tempo c’era, davanti a noi; quel gior-