Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/183

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quest’opera nobilissima: egli mi guarda corrucciato, quasi lo avessi personalmente offeso con l’offerta di un’elemosina; ed io non insisto. E non potrei capire questa ostilità verso le mie buone intenzioni, questo continuo rifiuto alle mie proposte, se non pensassi con superstizione che forse è anche questa una forma di castigo. Eppure, nel risalire la strada, fra i campi e gli orti che cominciano a verdeggiare e fiorire, dico, più a me stesso che all’ingegnere:

— Io non voglio disperare ancora, a proposito dell’argine. Rifarò la domanda, e andrò personalmente a sollecitare la pratica.

Egli tace: pare seccato della mia insistenza, poiché, da integerrimo funzionario vuole che il responso dei suoi superiori sia ritenuto definitivo e infallibile. E, piano piano, mi conduce nel triangolo fatale tra la facciata della chiesa e la casa parrocchiale. Tutto vi è silenzioso: chiuse le porte, aperta solo la finestra attraverso la cui inferriata si vede la stanzetta con la tavola e gli arnesi per fare il pane; una lucertolina di argento verde, lucida come un gioiello, balza dal davanzale e si nasconde fra l’erba: e basta questo per ridarmi un senso di pace, quasi di gioia. Senso di vita campestre, di umiltà, desiderio di lavoro e efficace e sano. Mi pare di veder Rinuccia (non più Agar) con le trecce raccolte sotto un fazzoletto, intenta a gramolare la pasta, ras-