Pagina:Deledda - La chiesa della solitudine, 1936.djvu/246

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Concezione si avvicinò quasi di slancio al lettino bianco, e vide i grandi occhi di Serafino spalancarsi simili a quelli di un fanciullo che si sveglia da un sogno: il suo viso di alabastro giallognolo pareva illuminato dalla luna; era una luce interna, che si colorì d’una lieve tinta azzurra, quando il malato riconobbe Concezione; ma la bocca era amara, e le labbra tumefatte pareva serbassero il sapore e il colore nero del sangue vomitato. Senza voce, scuotendo qua e la sul guanciale la testa come per liberarsi da un involucro molesto, fece a Concezione cenno di sedere. Ella sedette; e si accorse che li avevano lasciati soli.

— Sono venuta, — disse senz’altro, per non affaticarlo, — per sapere che cosa devo fare.

E si piegò su lui, come parlando in confessione. Ma con sua meraviglia la voce di Serafino risonò alta: una voce ch’ella però non gli conosceva, come venisse di lontano, da una profondità di burrone.

— Ascolta: c’è un uomo, un cristiano, che ha corso il più grave pericolo che una creatura di Dio possa correre: quello di perdere l’anima. Tu devi salvarlo; il pericolo è sempre grave.

— Lo so: egli ha tentato di uccidersi.