Pagina:Deledda - La giustizia, Milano, Treves, 1929.djvu/237

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— Ebbene, don Piane? Ebbene, don Piane? — chiese sinceramente meravigliata, chinandosi sopra. — Cosa ha?

Nel vederla aumentò il dolore del vecchietto; le piccole mani rugose tremolarono come due foglie di passiflora, e le sottili labbra si sporsero angosciosamente senza poter pronunziare parola.

Serafina s’inginocchiò, si sedette sui calcagni, guardò di sotto in su insistentemente il padrone.

Per qualche istante non s’udì che il breve ansare del vecchietto e i singulti di lei, troppo acuti e prolungati per esser verosimili. Alla fine ella parlò, e fu uno schianto per entrambi.

— È per questo, è per questo che piange lei, don Piane mio? Perchè io me ne vado! E per questo che piange? Non pianga, non pianga; già lo sa lei che l’immondezza deve esser buttata via..., ed io non sono che immondezza... io... Non pianga, don Piane mio; abbia pazienza, lo faccia per amor mio, per me che forse sono l’unica a volerle tanto bene! Già lo sa lei che io avrei dato la vita per don Piane Arca, per il mio padrone, già lo sa lei che io volevo consacrargli tutta la mia vita, fino all’ultimo giorno (non pensava la bella Serafina ch’ella aveva ventisei anni e il diletto padrone più d’ottanta?); — ma non hanno voluto, non hanno vo-