Pagina:Deledda - La giustizia, Milano, Treves, 1929.djvu/49

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— Non posso riposare se tu non rispondi. Pensaci subito.

Ella ci pensò subito, chinando la testa, e una voce maligna del suo mondo interno le ricordò subito tutti i rancori, le tristezze, i dolori, le umiliazioni che gli Arca le avevano dato.

— Perchè dovrò rimanere? — si domandò. — Perchè per quindici giorni o più devo abbandonare la mia casa per questa gente?

Si mosse, attraversò la camera, aprì un poco il verone e sollevò la fronte. Voleva pensar meglio. Sul paesaggio giallo e rorido il cielo d’autunno s’incurvava con freschezze e trasparenze indescrivibili; sul noce le allodole e le foglie umide scosse dalla brezza eseguivano una sonora mattinata musicale. Con l’aprirsi del verone tutta la freschezza e l’azzurra luminosità del mattino invasero la camera, e Maria pensò instintivamente quanto, quando sarebbe stata felice in quella casa e...

— Maria? — chiamò Stefano con supplichevole voce di bambino.

Ella lasciò il balcone: già l’amara voce taceva.

— Resterò, — disse, — purchè tuo padre sia contento.

— È contento, — rispose Stefano, ed entrambi si contentarono della pietosa menzogna.

— Sta bene allora.

— Chiama Serafina, fa il piacere.