Pagina:Deledda - Nel deserto, Milano, 1911.djvu/216

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e di legnami, le canne e gli alberi, umidi di rugiada, scintillavano e davano ancora al luogo un’aria campestre. L’odore dell’autunno inondava l’aria quieta; due amanti, all’ombra del muro di fronte a Lia, parlavano sottovoce, abbracciati come in un luogo solitario.

Ella li guardava e sentiva crescere il suo turbamento: si sdegnava per la serena noncuranza della coppia amorosa, ma non poteva vincere un senso d’invidia.

Altre coppie passavano, strette e silenziose: la donna ancora vestita di chiaro, l’uomo quasi sempre più alto di lei, paziente e protettore: erano coppie di buoni borghesi, che se ne andavano a spasso dopo il modesto pasto della sera; ma nel chiarore lunare, così limpido che vinceva quello dei fanali, parevano tutti amanti, o giovani sposi ancora innamorati.

E Lia si sentiva sola, nonostante la vicinanza dei bimbi addormentati, lontani quindi, smarriti nel mondo dei sogni. Come non pensare all’uomo che doveva arrivare, che forse pensava a lei, solo anche lui in mezzo alla moltitudine, come egli le aveva scritto più di una volta, e che doveva esser davvero solo se si rivolgeva a lei, quasi domandandole soccorso, a lei povera, umile, smarrita nella vita come in mezzo a una solitudine sconfinata?

Passarono le otto e mezza, le nove, le nove e mezza ed egli non arrivò: allora Lia si ritirò