Pagina:Deledda - Nel deserto, Milano, 1911.djvu/248

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dora; non era più dell’uomo, che ella diffidava, era di sè stessa.

Un giorno se ne accorse, ma non se ne meravigliò. Doveva succeder così. Adesso era tardi e non le restava che lottare. Ma ad un tratto questa lotta le parve facile, quasi piacevole.

La vita e la giovinezza riprendevano in lei i loro diritti; come il povero al tornare della primavera le sembrava che le membra le si sgranchissero, l’aria intorno fosse tiepida e quindi i movimenti più facili. Si sentì giovane e forte. Le paure, le inquietudini, le umiliazioni sparvero. I suoi bambini le sembravano più belli del solito, e baciando Salvador sentiva come un profumo di fiori, e baciando Nino sentiva come un gusto di frutta un po’ acerbe.

Ricordi lontani le tornavano in mente: rivedeva la brughiera, le dune naturali, grigie davanti al mare violetto: la zia Gaina nera sullo sfondo argenteo delle paludi; e sentiva ancora il grido dell’assiuolo, il lamento della fisarmonica suonata dal servetto del Maestro. Povero Maestro, egli la amava sempre, in silenzio, da dieci, da quindici anni.... e per la prima volta ella pensava a lui con pietà, quasi con tenerezza, ma poi, tutt’ad un tratto, lo invidiava. Perchè povero? Egli amava, aveva sul suo orizzonte una figura verso la quale si volgeva come verso una luce inestinguibile. Quanti uomini, anche fra i più fortunati, hanno questo bene? E le donne?