Pagina:Deledda - Nel deserto, Milano, 1911.djvu/255

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Aveva sempre in mente l’idea che fosse festa e non si dovesse lavorare. La notte era dolce e lunare, come quella in cui era tornato Piero: ed ella s’affacciò ancora alla finestra, e vide lo stesso cielo azzurro vellutato, la stessa linea di palazzi, i chiaroscuri della via e dei giardini, i lumi rossi in mezzo alle fabbriche che sembravano rovine.

Ma un profumo di glicine e di zagare inondava l’aria, ed ella ebbe l’impressione che grandi giardini incantati circondassero la città, e che di laggiù, da quella plaga di sogni, dovesse arrivare da un momento all’altro, per tutti quelli che erano stanchi, tristi, irritati, per tutti quelli che avevano lavorato durante la lunga giornata di primavera ed erano vissuti di pensieri aridi, di poco pane, di nessun affetto, un richiamo, un invito a scendere laggiù per un’ora di oblio e di pace.

Anche lei sentiva una smania di uscire, di vagare nella notte odorosa e chiara, di andare verso quel luogo di dolcezza; ma a un tratto vide Piero attraversare la via, e le parve che tutte l’incanto della notte primaverile penetrasse con lui nella casa silenziosa.

Egli l’aveva veduta alla finestra, e picchiò all’uscio per chiamarla; bastò quel lieve rumore perchè ella si svegliasse dal suo sogno.

— Venga, — egli disse, camminando piano per non svegliare i bambini: entrarono nel salotto