Pagina:Dieci lettere di Publio Virgilio Marone.djvu/57

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50 Lettera Ottava

ze liquori fumanti, che, al color tetro, ed al profumo odoroso Asiatiche, e stranie giudicai. Di poesia ragionavasi appunto, e leggevansi versi di fresco venuti del più gran Poeta, dicevano, che vivesse. Tesi l’orecchio ad udirli, ma indarno; che in cotal lingua erano; e pronunziati per guisa, che tutto era nuovo per me. Quel linguaggio mi parve barbaro affatto sì per le voci d’acuto accento tutte finite, e la più parte fischianti, e moltissime rotte tra denti, e sì per la novità. Compresi infine dal ragionare de’ circostanti essere quello Gallico idioma. Pensate qual mi rimasi ascoltando i Romani parlar la lingua dei Celti, e leggere i versi d’un Poeta Aquitanico, o Belgico ch’egli fosse, siccome del nuovo Omero, e Orazio. Ma crebbe in me lo stupore allor che indagando come ciò fosse, venni a sapere, che l’ultime Gallie Transalpine, che gli Eburovici, i Vellocassi, i Carnuti erano i Greci, e i Romani di questo tempo, Lutezia l’Atene dell’arti, e degl’ingegni, la Roma d’un nuovo Augusto, e d’un secolo nuovo; colà i Plauti, e i Terenzi, gli Euripidi e i Sofocli, i Tullj, i Tucididi, i Titi Livj spirare, e rivivere; in Italia tradursi l’opere loro, quelle imitarsi, e leggersi soprattutto, e quindi il linguaggio coltivarsi de’ Galli più che il latino, e l’italico per ben parere, e per vivere urbanamente, e non sembrar barbaro in Roma stessa. Io che vedute avea con gli occhi miei proprj le barbariche spoglie, e gli schiavi feroci, che Cesare a Roma trasse dalle Gallie soggiogate, stava mutolo, e istupidito a così nuovo portento. Quand’ecco a passar quivi presso una splendente Matrona, a cui tutti fer segno d’ossequio, siccome a Vesta, o alla gran Madre farebbesi, e l’accerchiarono a gara, e in lingua Celtica pur favellarono. Era quella, come mi dissero,